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ANASTASIS
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ANASTASIS
Ho aperto gli occhi. Tutto era buio intorno a me e l’aria era rarefatta. Ma l’oscurità che mi circondava non era il velo umbratile che ti avvolge quando ti risvegli nel cuore della notte dopo un sonno agitato per le numerose palpitazioni provocate da un sogno ribelle. Il nero più nero mi avvolgeva. Era un nero tuttavia caldo, non freddo nella sua consistenza marmorea. I movimenti mi erano impediti. Ho cercato di togliere le coperte che avvolgevano il mio corpo ma ne sono stato impedito: una forza estranea e misteriosa mi impediva di alzare il braccio e di togliere ciò che mi avrebbe ridato la luce. Il senso dell’orientamento era venuto meno: ciò che prima doveva essere il settentrione veniva confuso con il meridione, e ciò che doveva essere l’occidente era confuso con l’oriente. E viceversa, in un gioco di rimandi, di specchi, di labirinti infiniti.
Ho provato a muovere il capo, ma era bloccato, stretto in una morsa dura e tenace, e insieme tenera ed avvolgente. Il movimento repentino e indagatore degli occhi compensava questa mia capacità di movimento: ad essa si aggiungeva un gioco infantile, il tremolio delle dita dei piedi che nelle scarpe sembravano imitare l’esecuzione di un brano musicale. Erano le uniche due realtà delle quali mi fosse data possibilità di movimento. Tutto il resto era statico e imperturbabile.
Mi trovavo in uno stato di sospensione, nella quale i miei cinque sensi analizzavano, curiosavano, soppesavano e scrutavano ogni minimo indizio che mi desse ragione di questa assurda situazione.
Il cuore iniziò a battere più forte: il palpito carico di adrenalina di chi non comprende in quale luogo sia e ritiene non solo assurda, ma anche finita, la sua circostanza.
Ho provato a gridare, ma aprendo le lebbra le parole si sono frantumate sopra una spessa lastra che si trovava all’apertura della bocca: e lì ho assaporato un sapore freddo e familiare, di acqua sorgiva che si riversava sulla lingua come fiumicello pudico.
Ho pianto, ho pianto tanto.
L’aria iniziava a mancare, eppure sembrava di essere in un luogo di sospensione, senza tempo, nella quale l’aria è naturale che ci debba essere come riempimento necessario del vuoto, che non ha ragione di esistere in quanto tale.
Quanti pensieri in quei momenti.
Il tempo che mi era compagno era fuggito anche lui nell’oscurità: i minuti si erano confusi alle ore e le ore ai secondi. Tutto pareva interminabile e insieme istantaneo.
Ho atteso a lungo, o forse poco?
Non saprei dirlo.
Lacrime ed ansia
Ho chiuso gli occhi. Pensavo alla mia mamma. E pensavo a quando giocavo con la nonna, lei in camera seduta davanti alla finestra che cuciva una calza che mi pareva anch’essa interminabile.
Sentivo il ticchettio dei ferri che danzavano tra i fili intrecciati per intrecciare nuove melodie e nuove ballate.
Così vicini e insieme così lontani.
E ancora il fruscio della bandiera stesa al vento quando al mare, in spiaggia, il bagnino la issava sul pennone in segno di festa. Anche adesso provo la stessa umidità che si prova quando si esce intirizziti dall’acqua del mare. Osservavo la bandiera avvolto nell’asciugamano e mi piaceva ascoltare lo sbattere della tela trasportata dalla brezza.
Così vicino e insieme così lontano.
Ma sempre più vicino.
Un fruscio metallico, sempre più vicino, accompagnato da voci che mi parevano insieme familiari ed estranee.
Un fruscio meccanico e ritmico, che quasi cullava.
Un fruscio carico di ansia, che squarciava la nera cortina tra me e l’altro da me.
Un fruscio carico di speranza…
Gli occhi si chiusero per non essere abbagliati…
Vidi la luce.
A un mio amico, sepolto da una valanga in alta montagna, estratto dopo tre giorni.
Umilmente vostro.
Cantastorie
Ho provato a muovere il capo, ma era bloccato, stretto in una morsa dura e tenace, e insieme tenera ed avvolgente. Il movimento repentino e indagatore degli occhi compensava questa mia capacità di movimento: ad essa si aggiungeva un gioco infantile, il tremolio delle dita dei piedi che nelle scarpe sembravano imitare l’esecuzione di un brano musicale. Erano le uniche due realtà delle quali mi fosse data possibilità di movimento. Tutto il resto era statico e imperturbabile.
Mi trovavo in uno stato di sospensione, nella quale i miei cinque sensi analizzavano, curiosavano, soppesavano e scrutavano ogni minimo indizio che mi desse ragione di questa assurda situazione.
Il cuore iniziò a battere più forte: il palpito carico di adrenalina di chi non comprende in quale luogo sia e ritiene non solo assurda, ma anche finita, la sua circostanza.
Ho provato a gridare, ma aprendo le lebbra le parole si sono frantumate sopra una spessa lastra che si trovava all’apertura della bocca: e lì ho assaporato un sapore freddo e familiare, di acqua sorgiva che si riversava sulla lingua come fiumicello pudico.
Ho pianto, ho pianto tanto.
L’aria iniziava a mancare, eppure sembrava di essere in un luogo di sospensione, senza tempo, nella quale l’aria è naturale che ci debba essere come riempimento necessario del vuoto, che non ha ragione di esistere in quanto tale.
Quanti pensieri in quei momenti.
Il tempo che mi era compagno era fuggito anche lui nell’oscurità: i minuti si erano confusi alle ore e le ore ai secondi. Tutto pareva interminabile e insieme istantaneo.
Ho atteso a lungo, o forse poco?
Non saprei dirlo.
Lacrime ed ansia
Ho chiuso gli occhi. Pensavo alla mia mamma. E pensavo a quando giocavo con la nonna, lei in camera seduta davanti alla finestra che cuciva una calza che mi pareva anch’essa interminabile.
Sentivo il ticchettio dei ferri che danzavano tra i fili intrecciati per intrecciare nuove melodie e nuove ballate.
Così vicini e insieme così lontani.
E ancora il fruscio della bandiera stesa al vento quando al mare, in spiaggia, il bagnino la issava sul pennone in segno di festa. Anche adesso provo la stessa umidità che si prova quando si esce intirizziti dall’acqua del mare. Osservavo la bandiera avvolto nell’asciugamano e mi piaceva ascoltare lo sbattere della tela trasportata dalla brezza.
Così vicino e insieme così lontano.
Ma sempre più vicino.
Un fruscio metallico, sempre più vicino, accompagnato da voci che mi parevano insieme familiari ed estranee.
Un fruscio meccanico e ritmico, che quasi cullava.
Un fruscio carico di ansia, che squarciava la nera cortina tra me e l’altro da me.
Un fruscio carico di speranza…
Gli occhi si chiusero per non essere abbagliati…
Vidi la luce.
A un mio amico, sepolto da una valanga in alta montagna, estratto dopo tre giorni.
Umilmente vostro.
Cantastorie
Cantastorie- Numero di messaggi : 10
Data d'iscrizione : 02.04.09
Età : 43
Località : Valenza (AL)
Re: ANASTASIS
Molto toccante cantastorie, non dico altro ma ti abbraccio
Didy63- Numero di messaggi : 36
Data d'iscrizione : 21.02.09
Età : 60
Località : Noto (SR) Sicilia
Re: ANASTASIS
Mi hai coinvolto parekkio nella tua storia.Hai una rara sensibilità.
HERABLU- Numero di messaggi : 501
Data d'iscrizione : 03.03.09
Località : Modena
Re: Anastasis
Una bella storia...ci voleva proprio un pò di speranza!
Ho apprezzato il titolo anastasis = resurrezione!
Bravo cantastorie, ti leggo sempre molto volentieri e i tuoi scritti preferisco leggerli su carta.
Ho apprezzato il titolo anastasis = resurrezione!
Bravo cantastorie, ti leggo sempre molto volentieri e i tuoi scritti preferisco leggerli su carta.
solenascente- Numero di messaggi : 2096
Data d'iscrizione : 21.02.09
Età : 58
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